Cohousing: è ecologico, fa risparmiare, insegna ad aiutarsi
Gli spazi comuni sono in genere la lavanderia, il giardino, la sala giochi, la cucina... Il progetto funziona se si viene coinvolti fin dall'inizio nella progettazione
Un’alternativa alla tradizionale casa di proprietà, in grado di conciliare l’autonomia degli spazi privati con tutti i vantaggi della condivisione delle spese e del recupero del senso di comunità, trasformando i vicini in una sorta di famiglia allargata. Il cohousing è una strategia particolarmente adatta per affrontare le sfide del futuro, come il sovraffollamento delle città e l’invecchiamento della popolazione. L’obiettivo di chi lo sceglie è di trovare un modo per ridurre la complessità della vita senza condannarsi all’intimità forzata degli eterni coinquilini.
Il fascino del vivere comune non è solo una risposta alla crisi economica, che rende oggettivamente difficile sostenere i costi di gestione di una casa, ma anche una riscoperta del potere della cooperazione.
Semplificarsi la vita
Gli spazi comuni – come lavanderia, palestra, biblioteca, cucina, orti e terrazze – consentono un notevole risparmio energetico e diminuiscono l’impatto ambientale, oltre a costituire un’ambiente più piacevole per bambini e anziani. La vita in cohousing può essere infatti l’occasione per organizzare feste, corsi di ballo o di teatro, gruppi di lettura e cene collettive. Sconfiggere la solitudine è uno dei motivi per cui questa scelta diventa appetibile anche per la folta schiera di freelance, che nella progettazione degli spazi possono far includere aree di coworking. Non è raro poi che dalla condivisione di spazi, risorse e attrezzature si passi al car-sharing, alla formazione di gruppi d’acquisto solidale o di servizi di micronido, utilissimi per i neogenitori.
Un’idea nata in Nord Europa
Di cohousing si comincia a parlare nei paesi scandinavi già dalla prima metà dell’Ottocento. Lo scrittore Carl Jonas Love Almqvist, promotore dell’“hotel universale”, sosteneva che cucina e lavanderia comuni avrebbe salvato il matrimonio di molte coppie svedesi, incoraggiando la condivisione del lavoro domestico (tra donne, ovviamente) e mettendo fine all’equivalenza tra mogli e cameriere private. L’architetto danese Jan Gødmand Høyer è invece il padre ufficiale del cohousing nella forma che conosciamo oggi: il suo progetto del 1964 è stato adottato in molti altri Paesi, arrivando a conquistare anche Australia ed Europa del Sud negli anni ’90. Ovviamente, ogni Paese ha reinventato la distribuzione degli spazi e dei servizi con uno spirito tutti suo. In Italia i progetti di cohousing hanno permesso il recupero e la riqualificazione di edifici degradati o dismessi, completamente trasformati grazie all’iniziativa dei futuri vicini.
Per farlo funzionare
Arrivare preparati è il modo migliore per garantire che il progetto non rimanga sulla carta, superando le criticità per godersi finalmente i vantaggi. Per assicurarsi di partire con il piede giusto, il momento fondamentale è quello della progettazione partecipata. Essere coinvolti nel progetto fin dall’inizio permette di imparare a conoscersi e soprattutto di organizzare gli spazi secondo le esigenze di chi li abiterà. Il momento della progettazione è anche quello in cui i futuri abitanti degli alloggi iniziano a impostare la loro vita insieme, decidendo come relazionarsi e come gestire aree e servizi che si è deciso di mettere in condivisione. Il rapporto tra co-residenti è più profondo di quello tra condomini e mantenere il delicato equilibrio tra i membri richiede il costante impegno di tutto il gruppo. Per affrontare al meglio questo compito è possibile appoggiarsi ad un facilitatore, che può fare formazione e aiutare ad appianare gli inevitabili conflitti, con cui si possono organizzare incontri periodici.
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