Anticorpi monoclonali: dritti al bersaglio
Sono un'arma ad alta precisione e molto effica contro il Covid-19. In futuro permetterano di curare e, in alcuni casi, di prevenire la malattia
Scoperti lo scorso secolo, usati fino ad oggi per la cura di diverse patologie ma rivelatisi un’arma molto valida nel contrastare l’azione del virus Sars CoV-2, causa della pandemia che da più di un anno e mezzo tiene in ostaggio il mondo, gli anticorpi monoclonali hanno fatto e fanno ancora parlare di sé. Il 6 febbraio scorso, l’AIFA, l’agenzia italiana del farmaco, ne ha approvato l’utilizzo per la cura del Covid19 mentre sono in corso gli iter di sperimentazione di nuove versioni ancora più efficaci contro le varianti del virus
Visti da vicino
«Possiamo pensare agli anticorpi monoclonali come a frecce indirizzate contro un bersaglio specifico» spiega il professor Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Virologia e Microbiologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. «Sono infatti diretti quasi tutti contro una porzione della famosa proteina Spike che si chiama RBD. Questa è la porzione funzionalmente attiva della proteina cioè quella che si lega al recettore della cellula umana ACE2. L’anticorpo si lega a tale porzione e, quindi, impedisce al virus di entrare all’interno della cellula e di fatto blocca l’infezione».
Una scoperta rivoluzionaria
«Gli anticorpi monoclonali sono nati negli anni Settanta del secolo passato per l’intuizione di due ricercatori, Cesar Milstein e Georges Kohler, che, utilizzando cellule immunitarie di topo fuse con cellule umane, riuscirono a ottenere un “ibridoma”, sviluppando degli anticorpi individualmente selezionati ed efficaci nei confronti di singoli antigeni laddove prima ci si affidava a sieri di soggetti immuni» continua il professor Clementi. «Per sviluppare terapie utilizzabili sull’uomo è stato necessario però modificare gli anticorpi di topo per renderli più simili a quelli umani. All’inizio potevano essere usati solo per terapie brevi perché alla lunga si generava nel corpo una risposta autoimmune. C’è stata quindi una lunga fase di sperimentazione e sviluppo per poter arrivare agli attuali anticorpi monoclonali completamente umani, caratterizzati da due importanti vantaggi: la possibilità di usare quantità illimitate di un unico anticorpo senza avere alcuna reazione o conseguenza nell’organismo e un’azione più mirata nei confronti della malattia
Tante sperimentazioni
Appena iniziata la diffusione della malattia Covid-19, in pochi mesi sono stati isolati quasi un centinaio di anticorpi monoclonali mirati e specifici per il virus Sars CoV-2. Una decina di essi sono arrivati a essere utilizzati in vivo e hanno dimostrato un’efficacia notevole nel neutralizzare il virus. Ora nei protocolli di cura per il Covid-19 in Italia si stanno usando solo gli anticorpi monoclonali che hanno terminato l’iter di validazione e che sono stati approvati da FDA e da EMA, come quelli prodotti dalle case farmaceutiche americane Ely Lilly e Regeneron ma ce ne sono tanti altri in fase di sviluppo. «Di quelli in uso, alcuni sono singoli anticorpi, altri sono cocktail di due o più anticorpi monoclonali» spiega Massimo Clementi. «Nel nostro Paese nel frattempo diversi centri di ricerca li hanno sviluppati: il professor Novelli all’Università di Roma Tor Vergata, in Toscana Life Science sotto la guida del dottor Rino Rappuoli e, a Milano, anche il Laboratorio di Virologia e Microbiologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Dovendo essere sottoposti a tutto il percorso di validazione che fanno i farmaci, non si può prevedere quando potranno essere usati negli ospedali. Il progetto che in questo senso è più avanti, quello di Rappuoli, ha superato la prima fase di test ma guarda con fatica al traguardo per la difficoltà a reclutare candidati e a trovare finanziamenti».
L’articolo completo è sul numero di Silhouette donna di settembre, ora in edicola.
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