Aiutare gli altri fa bene anche alla salute
Oltre a migliorare le nostre performance, a permetterci di imparare più in fretta e di affinare le nostre decisioni. Vediamo perché
Non sempre gli esseri umani fanno un figurone quando vengono osservati attraverso le lenti della psicologia e delle neuroscienze. Nel prendere decisioni siamo spesso motivati dall’interesse personale, se non dalla vanità o dall’avidità, ma anche le regole non scritte hanno le loro eccezioni.
Uno studio condotto da Lukas Lengersdorff e altri ricercatori dell’Università di Vienna suggerisce che la nostra propensione alla socialità possa aiutarci ad apprendere più velocemente e a migliorare le nostre capacità decisionali, purché in gioco ci sia il benessere di un altro.
L’importanza del contesto
Esperimenti precedenti hanno dimostrato che l’interesse personale (come la possibilità di vincere un premio in denaro) può essere un buon incentivo per imparare in fretta le regole di un gioco. A quanto pare, però, basta l’idea che qualcuno si faccia male a cambiare le carte in tavola. I partecipanti allo studio di Lengersdorff sono stati monitorati con uno scanner fMRI mentre erano impegnati in un gioco che consiste nell’imparare quali scelte portano a innocue scossette elettriche e quali a stimoli ben più dolorosi. Le performance ottimali – ovvero quelle che hanno comportato il minor carico di dolore – non sono state quelle di chi ha dovuto imparare la differenza sulla propria pelle, bensì quelle di chi ha dovuto compiere questa scelta per conto di un altro.
Il cervello sociale
Quando ci si assume questa responsabilità, spiegano i ricercatori, viene attivato anche il cosiddetto “cervello sociale”, ovvero la regione implicata nella valutazione delle emozioni altrui. La collaborazione tra questa regione e la corteccia prefrontale ventromediale, legata invece ai processi decisionali, potrebbe essere stata la chiave per migliorare la performance dei partecipanti che si sentivano in dovere di proteggere un altro giocatore dalle conseguenze dei loro errori. Un segnale incoraggiante per chi non vuole rassegnarsi a credere che la natura umana sia essenzialmente egoista, perché dimostra che il comportamento prosociale può affinare le decisioni quanto la prospettiva di un guadagno personale.
Egoisti o altruisti?
Con buona pace di Richard Dawkins, biologo inglese autore del saggio Il gene egoista (Mondadori), non c’è ragione perché la nostra natura di “macchine da sopravvivenza” non contempli anche il benessere degli altri. Lo psicologo Steve Taylor sostiene che i tratti prevalenti nella nostra specie non sono l’aggressività o l’egoismo, bensì la cooperazione e l’egalitarismo. Queste caratteristiche avrebbero guidato le società umane per millenni, finché l’agricoltura non ha modificato le abitudini dei cacciatori-raccoglitori. La ragione è molto semplice: in natura nessuno sopravvive da solo, tanto che secondo alcuni esperti abbiamo sviluppato mali come la solitudine come meccanismo di controllo per rendere meno appetibile l’egoismo.
I vantaggi per la salute
C’è anche chi sostiene che essere altruisti abbia le sue buone ragioni egoiste, inclusa la ricaduta positiva che le buone azioni hanno sulla salute di chi le compie. Forse non sarà una differenza drastica, ammette Bryant Hui dell’Università di Hong Kong, ma incrociando i dati di circa 200 studi indipendenti risulta che i comportamenti prosociali possono effettivamente contribuire al benessere fisico e mentale delle persone. Ancora più delle forme strutturate di altruismo, come il volontariato, sarebbero le piccole premure verso gli altri a farci sentire più soddisfatti di noi stessi e a conferire senso alle nostre vite. Prima di dichiarare l’altruismo un toccasana per la salute, però, bisognerebbe mettere ulteriormente alla prova questi risultati con ricerche che stabiliscano qual è il “livello ideale di prosocialità”, trovando il giusto equilibrio tra cura di sé e cura degli altri.
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