Le Millennials e il trend dei vestiti in affitto
Affittare i vestiti ha un doppio vantaggio: allunga la vita dei capi e permette di sperimentare con leggerezza. Uno stile di consumo in linea con le esigenze dei più giovani, anche perché potenzialmente green
Se il sogno proibito della fashionista anni ’90 era la cabina armadio grande quanto un monolocale, le ventenni di oggi sono più pragmatiche. Il trend del noleggio di abiti e accessori, ribattezzato dagli esperti “consumo collaborativo”, ha il grande pregio di estendere il ciclo vitale dei capi evitando che si trasformino in spazzatura prima del tempo. E piace anche perché permette di rinnovare il look senza impegnarsi troppo, riducendo i sensi di colpa e rendendo anche il luxury più accessibile.
La speranza è che le nuove generazioni abbraccino questo stile di consumo più facilmente, guardando soprattutto alla sostenibilità.
Ridurre lo spreco
La generazione Z è il banco di prova perfetto. In uno studio pubblicato su Sustainability, il professor Ting Chi e colleghi hanno intervistato 362 giovani nati tra il 1997 e il 2002 scoprendo che l’interesse per la sostenibilità e la questione ambientale va di pari passo con una disaffezione al concetto di possesso. Essere alla moda è ancora importante, ma avere l’armadio pieno lo è molto meno. Una generazione più minimalista e aperta alla condivisione, ma soprattutto una generazione interessata a fare la differenza a partire dai propri stili di consumo. Affittare i vestiti potrebbe essere una buona alternativa green al circolo vizioso di sovraproduzione e inquinamento, andando incontro al desiderio del consumatore di vedersi continuamente addosso qualcosa di nuovo senza per questo alimentare i peggiori difetti dell’industria della moda.
Convince anche i brand
Il noleggio non è di certo un’idea nuova, ma fino a tempi molto recenti ha riguardato soprattutto il settore luxury e gli abiti da cerimonia. In Italia operano già da tempo realtà come le milanesi Revest e DressYouCan, che permettono di provare i vestiti anche dal vivo prenotando un appuntamento in showroom, o come la boutique online Drexcode. Gli stessi brand iniziano a sperimentare servizi dedicati, come Pleasedontbuy di Twinset o Nuuly di URBN (che include marchi come Urban Outfitters e Anthropologie). Se questo nuovo stile di consumo dovesse prendere piede, andando se non proprio a sostituire almeno a limitare l’acquisto, gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Il problema è riuscire a farlo nel modo giusto, ovvero senza aumentare a dismisura il numero di pacchi e pacchetti trasportati su ruote con relative emissioni di carbonio e cumuli di involucri che non sempre possono essere smaltiti…
È davvero green?
Su circa 53 milioni di tonnellate di capi prodotti globalmente ogni anno, scrive la stilista e attivista Orsola de Castro in I vestiti che ami vivono a lungo (Corbaccio), circa il 75% viene buttato via, in fase di produzione oppure dopo essere stato indossato: “l’equivalente di un camion della spazzatura che riversa in discarica un carico di vestiti usati al secondo”. Da questo punto di vista la condivisione dei beni sembra decisamente l’opzione più sostenibile, ma perché lo sia fino in fondo bisognerebbe privilegiare i servizi sul proprio territorio, meglio ancora se si ha la possibilità di effettuare prove e ritiro di persona. Altrimenti si rischia di aumentare i costi ambientali legati a trasporti e packaging, senza parlare di altre operazioni necessarie come lavaggio a secco e sanificazione.
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