Flânerie: alla riscoperta delle città
Dopo il lockdown riprendete confidenza con la vostra città passeggiando senza una meta precisa, lasciandovi catturare dalle vetrine, da un particolare architettonico, da un incontro casuale
Diversamente da chi attraversa la città approfittando di tutti i trucchi a disposizione per ottimizzare gli spostamenti, il flâneur (o la flâneuse) si lascia trasportare dall’imprevisto e dall’insolito. Camminare senza la fretta di dover arrivare da qualche parte insegna a guardare i luoghi in cui abitiamo con occhi nuovi, tenendo a bada sia la nevrosi da grande metropoli che la claustrofobia dei piccoli centri.
Ecco perché tanti scrittori consigliano la flânerie come esercizio di mindfulness, incoraggiandoci a riscoprire il piacere di lasciarsi distrarre.
E questo è l’esercizio perfetto per riprendere confidenza con la propria città dopo il lockdown.
Chi è il flâneur
L’atteggiamento del flâneur è quello di chi per scelta “decide di uscire per farsi travolgere dalla bellezza di quel che incontra”, come scrive Roberto Carvelli in La gioia del vagare senza meta (Ediciclo Editore), ma non come un umarell che deve occupare il tempo o un avventuriero in cerca di fortuna. La sua attività somiglia più a quella di un investigatore o di un cronista, che mentre cammina raccoglie indizi e si concentra sui particolari. La flânerie nasce a Parigi, ma non è un’esclusiva delle grandi città. Persino borghi e paesini di campagna possono essere osservati da angolazioni sconosciute. Per fare davvero flânerie bisogna imparare a spaesarsi, a lasciarsi incantare da quello che non ci si aspetta di trovare. L’importante è lasciare a casa ogni “pretesa ansiogena” legata al camminare, perché spezzerebbe l’incanto riportandoci immediatamente al dovere.
Lasciarsi sorprendere
Rilassarsi e imparare ad accettare gli imprevisti come qualcosa di piacevole (e non come guai da risolvere) è la prima condizione di chi vuole abbandonarsi alla flânerie. Perdere un treno, farsi sorprendere dal temporale, sbagliare autobus, girare a sinistra invece che a destra sono tutte occasioni per scoprire qualcosa che avremmo ignorato se tutto fosse andato secondo i piani. Lasciarsi sorprendere da un luogo, riflette Rebecca Solnit in Storia del camminare (Ponte alle Grazie), significa concedersi molte libertà di cui l’efficienza tecnologica ci ha privato, come imbattersi in amici di passaggio, innamorarsi di un oggetto in vetrina, scoprire gioielli architettonici, guardare la luna spuntare tra gli edifici o curiosare nelle vite degli altri grazie a una finestra aperta. Tutti particolari che sfuggono a chi si attiene a tabelle di marcia troppo rigide, calcolando il percorso in anticipo in nome di una produttività che fuori dall’orario di lavoro risulta esasperata.
Da dove cominciare
Se non sapete da dove partire, consiglia Carvelli, cominciate con l’escludere i luoghi che finiscono spesso nelle cartoline. A Milano non partite dal Duomo (anche se potreste avventurarvi nella Galleria e nelle viuzze laterali), a Roma non da via del Corso (ma Ripetta può andare), a Napoli non da via Toledo, a Barcellona non dalla Rambla. Meglio i luoghi di passaggio, come le stazioni o i porticati, oppure le piazze, i capolinea degli autobus, i posti in cui si può arrivare per caso e per sbaglio. Si può iniziare dall’ora dell’aperitivo finché non sopraggiunge il male ai piedi, facendo deviazioni tra una commissione e l’altra, oppure dedicare all’esplorazione la domenica pomeriggio e i giorni di vacanza. La flânerie non pretende né promette, è liberatoria proprio perché non deve conseguire alcun obiettivo. Tutto quello che serve per iniziare sono buone gambe e la disposizione d’animo “di un bambino curioso di tutto”.
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