Guilty pleasure: quando le nostre passioni ci imbarazzano
Programmi trash, romanzetti hot, canzoni sdolcinate... tutti abbiamo le nostre debolezze inconfessabili. Ma in realtà non c'è niente di cui vergognarsi. Uscire dagli schemi e concedersi qualche passione trasgressiva (e innocua) fa bene
Alcuni piaceri sono un po’ colpevoli. Un conto è dichiarare pubblicamente il proprio amore per i capolavori della letteratura russa, o discutere dell’ultimo film in gara a Cannes, un altro è ammettere candidamente di adorare i reality dal retrogusto trash o le boyband coreane.
Peggio ancora, aver superato i 30 anni e avere ancora un debole per le saghe adolescenziali o per i romanzi rosa con scene bollenti.
Crediamo che questi peccati veniali possano minare la nostra credibilità, ma ci sono ottime ragioni per smettere finalmente di dare peso al giudizio degli altri e difendere il nostro diritto ad amare ciò che amiamo senza imbarazzo.
La nascita del conflitto interiore
La definizione di “guilty pleasure” è piuttosto elastica. In generale, riguarda il ventaglio di piaceri meno nobili che ci fanno sentire in imbarazzo e a disagio proprio perché ci rendiamo conto di amarli davvero. Film oggettivamente brutti, programmi televisivi poco edificanti, libri a cui togliamo la sovraccoperta in pubblico, canzoni che cantiamo solo nel privato della doccia. A suscitare questo senso di colpa è la sensazione che coltivare queste passioni danneggi l’immagine che vogliamo presentare agli altri, sminuendoci ai loro occhi. Allo stesso tempo ci divertono tantissimo e pur di non rinunciarvi siamo pronti a fornire una lunga lista di scuse che rendano queste pecche ammissibili.
Ironia distaccata ed entusiasmo camp
Riabilitare gli abissi della cultura pop è possibile, basta dissimulare. È quello che emerge dalle riflessioni dei sociologi Roscoe Scarborough e Charles Allan McCoy, che in una ricerca pubblicata su Poetics hanno classificato gli spettatori dei programmi tv senza troppe pretese sulla base dei loro atteggiamenti. C’è chi rivendica una nuova frontiera del gusto “contemporanea e postmoderna”, in cui è tollerabile indulgere in piaceri superficiali purché lo si faccia in modo ironico. La maschera dell’ironia permette di godersi gli stessi fenomeni culturali di cui si ama parlare male, contribuendo di fatto al loro successo, e allo stesso tempo di sentirsi al di sopra della massa. Poi c’è il “buon gusto del cattivo gusto” di cui parlava Susan Sontag, che già negli anni ’60 aveva individuato una nuova sensibilità (quella camp) orientata a tutto ciò che è artificioso, colorato, esagerato e anche un po’ kitsch. Chi non riesce a identificarsi in una di queste due correnti invece sviluppa un tremendo senso di colpa, che finisce per trasformare un’esperienza piacevole in una fonte di stress.
Aprirsi alla leggerezza
La trasgressione è metà del divertimento, anche se non ne siamo sempre consapevoli. Forse quello che ci attrae è proprio la possibilità di uscire dagli schemi, coltivando una riserva di passioni genuine e poco impegnative. Non è un caso che le razionalizzazioni più comuni tra chi sente il bisogno di giustificarsi davanti al tribunale del bon ton abbiano a che fare con il bisogno di leggerezza. Se dovessimo tenere fede ai nostri buoni propositi, eliminando dalla nostra dieta intellettiva ogni tentazione, diventeremmo persone noiosissime. Una prospettiva che dovrebbe preoccuparci più della potenziale brutta figura che potremmo fare se si venisse a sapere di quante volte siamo rimaste sveglie fino a tardi a leggere fanfiction su Wattpad. E non crediate che gli altri non abbiano le loro debolezze. Per citare l’ormai classico Breakfast Club, “Siamo tutti abbastanza strani. Alcuni di noi sono solo più bravi a nasconderlo, ecco tutto”.
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