26/06/2020

Figuracce: perché anche quelle degli altri ci imbarazzano (e ci divertono)

Veronica Colella Pubblicato il 26/06/2020 Aggiornato il 26/06/2020

Rendersi conto che siamo tutti un po' ridicoli ed esposti a gaffe ed errori insegna ad accettare meglio le proprie debolezze e a superarle con un sorriso

The abstract image of leaving of the person from problems in the modern world.

L’imbarazzo è un’emozione che si può provare anche per procura. Osservare una gaffe, anche se non ci riguarda direttamente, è come guardare un incidente al rallentatore: ai primi segnali di umiliazione incombente lo stomaco si stringe, il battito accelera, sudano le mani e si ha solo voglia di coprirsi gli occhi e scomparire.

Alcune persone si sentono così coinvolte da non riuscire ad assistere nemmeno alle figuracce immaginarie dei protagonisti di un film, per non parlare dei provini disastrosi dei talent.

Eppure, c’è anche chi riesce a trasformare questa vergogna di seconda mano in un sentimento positivo.

Se la vita è un teatro

Per capire meglio come funziona l’imbarazzo, suggerisce la giornalista scientifica Melissa Dahl nel saggio Che figura! (Feltrinelli, 2019), possiamo ricorrere alla metafora del teatro utilizzata dal celebre sociologo Erving Goffman. Quando interagiamo con i nostri simili, è come se ci trovassimo su un enorme palcoscenico. Ci presentiamo in un certo modo e cerchiamo di soddisfare le aspettative del nostro pubblico, comportandoci secondo regole condivise che stabiliscono cosa è appropriato e cosa non lo è. E poi c’è il retroscena, abitato da una versione non abbellita, non “sceneggiata”, di noi stessi. Quando accidentalmente permettiamo a questa versione di venire fuori e scopriamo che c’è una certa dissonanza tra l’immagine che vogliamo proiettare e come appariamo realmente, ecco arrivare imbarazzo e mortificazione. Una sensazione che conosciamo così bene da riuscire a sentirla sulla nostra pelle anche quando siamo semplici spettatori.

Dolore fisico e dolore sociale

I neuroscienziati Sören Krach e Frieder Paulus, dell’Università di Lubecca, hanno scoperto che basta il pensiero di una figuraccia (anche lieve, come andarsene in giro con la cerniera abbassata) per attivare nel cervello le stesse aree coinvolte nell’elaborazione del dolore. Nella nostra testa non c’è una grande differenza tra dolore sociale e fisico – la stessa empatia che ci permette di condividere le lacrime di un altro ci rende vulnerabili ai suoi momenti più imbarazzanti. Una sensazione che ci assale anche quando la persona che osserviamo non è consapevole di essersi messa in ridicolo. Provare dolore insieme agli altri, però, non ci rende automaticamente compassionevoli. Anzi, la strada più facile per proteggersi da questo dolore è trasformarlo in disprezzo, il che permette di prendere le distanze da chi si è messo in ridicolo e illude di essere al sicuro dal rifiuto e dall’ostracismo.

Il gusto acquisito del “cringe”

Se provate a cercare su internet il termine cringe, vi troverete davanti a intere compilation di balletti sgraziati su TikTok, spezzoni di reality show con concorrenti improponibili, proposte di matrimonio fallite e momenti in cui sarebbe stato meglio mordersi la lingua. Se questi contenuti sono così popolari non è per un eccesso di sadismo. Tra i commenti ci sono anche molte persone che ammettono di riconoscersi nella stessa situazione e che trovano conforto proprio da un’immersione nell’imbarazzo compassionevole. Scoprire che in fondo siamo tutti un po’ folli e ridicoli aiuta ad alleggerire la carica emotiva legata all’imbarazzo e rende più sopportabile il ricordo delle figuracce passate. Per questo dovremmo resistere sia all’impulso di distogliere lo sguardo che a quello di puntare il dito, imparando semplicemente a ridere della nostra comune umanità.