Burnout, colpisce anche gli svedesi
La sindrome da stress lavorativo non risparmia neppure la ricca e moderna Svezia. E, a sorpresa, è un problema soprattutto per i giovani professionisti brillanti, assillati dall'obbligo di essere perfetti
Le condizioni di lavoro in Svezia sono un sogno per molti colleghi europei: solo l’1% della popolazione lavora più di 50 ore a settimana e ad ogni cittadino sono garantite cinque settimane di ferie all’anno. Tuttavia, un servizio della BBC mette in evidenza un trend preoccupante: le richieste di congedo per malattia dovuto a sindrome da burnout, nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 29 anni, sono incrementate del 144% rispetto al 2013. L’esaurimento colpisce tanto i dipendenti che i liberi professionisti, complici le nuove tecnologie che ci rendono sempre reperibili e sempre sotto osservazione.
Il mix esplosivo di affaticamento e ansia colpisce sempre di più i giovani messi sotto pressione da lavoro e vita sociale
Vietato rilassarsi
A creare un terreno fertile per la sindrome da burnout non sono solo le frequenti invasioni da parte di e-mail e telefonate di lavoro extra-orario, ma il bisogno di mostrarsi attivi e ben organizzati. In un mercato del lavoro sempre più competitivo – e dove i social network forniscono una narrazione costante della propria vita privata – il “dolce far niente” non è tollerabile. Alla società (e all’azienda) va dimostrata la propria dedizione a uno stile di vita sano, una forma fisica perfetta e una vita sociale ricca ma non troppo indisciplinata.
Giovani sull’orlo di una crisi di nervi
Natalie Suonvieri, ex marketing manager di una piccola start-up e ora educatrice nel campo della salute mentale, ha fatto tesoro della sua disastrosa esperienza per riflettere sulle ragioni di un burnout precoce. A 25 anni è stata messa fuori gioco per un anno intero, di cui quattro mesi passati rannicchiata sul letto in posizione fetale, completamente incapace di prendere decisioni. La stessa cosa è successa alla musicista Cecilia Axeland, che a soli 23 anni si è ritrovata in preda ad una sorta di paralisi che le impediva di scendere dall’auto o di alzarsi dal letto. In entrambi i casi non è stata solo una questione di orari troppo lunghi, ma un insieme di elementi tra cui spicca la pressione sulla propria immagine. La professoressa Marie Åsberg, del Karolinska Institutet, sostiene che per il cervello non ci sia una grande differenza tra l’impegno retribuito e l’intensa attività para-lavorativa necessaria per organizzare il proprio tempo libero, in modo da risultare competitivi e migliori degli altri. Anche i mantra sul “credere nei propri sogni” e “impegnarsi al massimo” possono dar vita a delusioni da cui è difficile riprendersi, perché di fatto non a tutti sono concesse le stesse opportunità.
Non è un fenomeno recente
La definizione è stata coniata negli anni ’80 in seguito alle ricerche di Herbert Freudenberger, per descrivere il lento ma progressivo deterioramento di emozioni e impegno, associato a fatica cronica e talvolta all’abuso di sostanze stupefacenti, evidente soprattutto nelle professioni di cura e d’aiuto. Prima ancora, gli stessi sintomi venivano ricondotti sotto l’ombrello della “nevrastenia”, dove l’individuo “debole di nervi” esibiva un misto di affaticamento e ansia. Il neurologo statunitense George Miller Beard riteneva, nel lontano 1869, che questi sintomi fossero un grido dall’allarme da parte del cervello, sopraffatto dallo stile di vita frenetico delle grandi città. Il problema non andava cercato nel paziente, ma nella società: la stessa opinione è stata ribadita nel 1909 dal British Medical Journal, quando il fenomeno era ormai diffuso anche in Europa. La radice del disturbo era il flusso continuo e pressante di richieste da soddisfare, che causava epidemie di insonnia ed emicrania negli studenti e trasformava gli impiegati in disonesti a caccia di scorciatoie, ipersensibili alle critiche e in costante fibrillazione.
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