14/03/2021

Body monitoring: spegni mai il radar?

Veronica Colella Pubblicato il 14/03/2021 Aggiornato il 14/03/2021
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Secondo le stime di Caroline Heldman, professoressa associata all’Occidental College di Los Angeles, in media ogni donna pensa al suo aspetto ogni 30 secondi e quasi mai in termini lusinghieri. Lo facciamo in maniera critica e minuziosa, a caccia di difetti più che di complimenti.

Gli esperti lo chiamano habitual body monitoring, un condizionamento sociale che ci porta a tenere la pancia in dentro e a preoccuparci della ricrescita di peli e capelli anche quando in realtà non ci guarda nessuno.

Il vecchio detto secondo cui la vanità è femmina nasce proprio qui, ma oggi sappiamo che dietro alla tendenza a specchiarsi in ogni superficie – vetrine, porte degli ascensori e pozzanghere incluse – c’è molto più che il piacere di piacersi.

Viste da fuori

La teoria della Heldman è che nonostante le conquiste in fatto di parità continuiamo a percepire il nostro corpo come qualcosa che deve essere prima di tutto bello da guardare. E anche quello delle altre, tanto che a vedere un’ascella o un polpaccio non depilato in pubblico a molte vengono i brividi. Questa abitudine a assumere sempre il punto di vista di una terza persona, come se ci fosse sempre un riflettore puntato sui nostri difetti, non rappresenta solo uno spreco incredibile di energie mentali, ma finisce per rovinarci l’adolescenza, le vacanze, il rapporto con il cibo, il sesso e persino le amicizie. Alla radice del conflitto tra donne, spiega Heldman, ci sarebbe quello che i naturalisti chiamano “ordine di beccata”, ovvero la gerarchia sociale che determina l’accesso alle risorse. Se essere attraenti è una forma di potere, a cui per giunta è legata anche la nostra autostima, ecco spiegata la feroce competizione femminile.

Esiste un compromesso?

Essere belle non dovrebbe essere un imperativo morale, né dovremmo sentirci obbligate a seguire canoni estetici limitanti come la vecchia storia del seno a misura di coppa di champagne. Tuttavia, piacersi e voler piacere non dovrebbe nemmeno essere una colpa. Di quelle ce ne trasciniamo già dietro abbastanza, come fa notare Jennifer Guerra nel suo saggio Il corpo elettrico (Tlon). Ci dovrà pur essere una sana via di mezzo tra la vita di privazioni di chi aspira a essere un bellissimo soprammobile e l’idea che prendersi cura di sé renda frivole e superficiali. Ad esempio, adottando un female gaze che restituisca importanza al nostro essere soggetti e non solo oggetti del desiderio di qualcuno. O forse, ragiona Guerra, recuperando una visione più filosofica del corpo come tramite tra l’anima e il mondo. È il nostro corpo che ci permette di provare piacere e dolore, le nostre gambe che ci portano nei posti che amiamo. Insomma, prendendocene cura perché lo apprezziamo e non perché sentiamo di doverci immolare nel tentativo di somigliare a una modella di Victoria’s Secret anche se la natura non ci ha dato i geni di Adriana Lima.

Un esperimento macabro (ma efficace)

La psicologia sembra confermare l’intuizione di Guerra, almeno secondo un recente studio pubblicato su Body Image. A quanto pare, soffermarsi abbastanza a lungo sulla propria mortalità aiuta a ridimensionare l’importanza di una pancia piatta o di una pelle priva di imperfezioni. Alle 158 studentesse coinvolte nell’esperimento è stato chiesto di fare un esercizio di riflessione tra un questionario e l’altro sulla bellezza e sulla soddisfazione di sé, suddividendole in tre gruppi. Quelle a cui è stato proposto lo scenario più macabro, ovvero una riflessione sulla propria morte in un incendio, al termine del test sono risultate anche più soddisfatte del proprio peso e della propria immagine. Un metodo non adatto a tutte per via dei pensieri negativi che può scatenare in chi è più sensibile, avvertono le ricercatrici, ma sicuramente degno di essere approfondito.