Women talking: l’8 marzo arriva al cinema il film più atteso del post-Me Too
Il film di Sarah Polley porta sullo schermo l’omonimo romanzo di Miriam Toews sugli stupri fantasma della Bolivia
Tra il 2005 e il 2009, donne e bambine (e segretamente anche uomini e ragazzi) di una remota colonia mennonita in Bolivia si sono svegliate nei loro letti confuse e doloranti. Lenzuola macchiate di sangue, lividi sul corpo, fili d’erba tra i capelli oppure brandelli di corda ancora avvolti intorno a polsi e caviglie, ma nessun ricordo che potesse spiegare il perché.
Si è poi scoperto che almeno sette membri della loro comunità utilizzavano un anestetico per mucche per stordire e violentare le loro vittime, ma all’inizio le lamentele delle donne non sono state prese sul serio.
Si è parlato di fantasmi e demoni, di punizioni divine e della sfrenata immaginazione femminile.
Una vicenda che ha toccato nel profondo la scrittrice Miriam Toews, mennonita canadese che nel 2018 ha scritto il romanzo Donne che parlano (Marcos Y Marcos) provando a immaginare cosa sarebbe successo se le donne avessero avuto la possibilità di riunirsi tra loro e decidere cosa fare. Il risultato è un romanzo brillante, finito tra le mani di Sarah Polley – attrice, sceneggiatrice e regista – dietro l’insistenza di un’amica, convinta che valesse la pena di farne un film. E il risultato non delude, grazie anche alla passione e alla determinazione delle produttrici Frances McDormand e Dede Gardner.
Ridere nel pianto
Non è facile adattare una storia come questa senza cadere nel melodramma. Ma Polley c’è riuscita, mettendo insieme un cast in grado di tenere fede alle premesse del romanzo. C’è molta rabbia, ma anche speranza e gentilezza. È una storia di violenza raccontata in maniera intima, spirituale e persino umoristica, dall’interno di una comunità che non rinnega se stessa nemmeno di fronte a un tradimento così profondo.
Quasi tutto il film è ambientato nel fienile dove le donne si riuniscono per parlare, scontrarsi e confrontarsi alla pari, mostrando le conseguenze di quello che hanno subito – attacchi di panico, gravidanze, malattie veneree, denti rotti – e allo stesso tempo trattandole come un dato di fatto su cui non vale la pena indugiare.
Se perdonare è impossibile
In quarantotto ore, le donne della colonia di Molotschna devono prendere una decisione importante. Per il momento gli uomini sono in città, dove hanno condotto i responsabili delle violenze per la loro stessa sicurezza dopo che Salomé Friesen (Claire Foy), la sorella irrequieta della placida Ona (Rooney Mara), si è avventata loro contro armata di falce.
Al loro ritorno le donne dovranno perdonare i colpevoli, così da garantire a tutti un posto in Paradiso. Se non fosse che per molte di loro perdonare è un compito impossibile. Non resta che esaminare tutte le scelte e metterle ai voti: la prima è non fare niente, rimettendosi al parere degli anziani come consiglia Scarface Janz (Frances McDormand), la seconda è restare e combattere per cambiare le cose, la terza rifiutare di obbedire e andarsene. È la più spaventosa, perché le donne di Molotschna sono per lo più analfabete e non hanno idea di come sia il mondo esterno, né hanno una mappa che indichi loro cosa c’è là fuori. Ma è anche la più affascinante.
A decidere per tutte saranno le donne di due famiglie, le Loewen e le Friesen, incaricate di arrivare a una conclusione prima che i loro mariti e fratelli tornino a casa.
Donne con una voce
Il cambiamento più grande rispetto al libro riguarda il narratore: non più August Epp (Ben Whishaw), il timido maestro a cui sono stati affidati i verbali della riunione delle donne, ma Autje Loewen (Kate Hallett), figlia della combattiva Mariche (Jessie Buckley), che racconta la storia alla figlia non ancora nata di Ona. Una decisione presa a riprese terminate, quando è diventato evidente che seguire troppo fedelmente il romanzo, in cui August è un personaggio molto più complesso, avrebbe in qualche modo depotenziato la storia, in cui gli uomini compaiono solo marginalmente.
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