Bones and all: Timothée Chalamet tra amore e cannibalismo
Arriva in sala il nuovo film di Luca Guadagnino, premiato all'ultima Mostra del cinema di Venezia. Protagonisti Timothée Chalamet e Taylor Russell
Una favola nera sull’emarginazione e sui limiti dell’amore, o forse l’elegia di una società prossima al collasso. In Bones and all di Luca Guadagnino il cannibalismo è una metafora aperta a più interpretazioni, inclusa quella più ovvia, ovvero il bisogno intimo di essere riconosciuti e amati a dispetto dei propri mostruosi desideri.
Ambientato nel Midwest americano ai tempi di Ronald Reagan, ha conquistato critica e pubblico al Mostra del Cinema di Venezia portando a casa un Leone d’Argento per la miglior regia e il Premio Marcello Mastroianni per la migliore attrice emergente, assegnato a Taylor Russell.
Ma soprattutto è il film in cui Guadagnino torna a dirigere Timothée Chalamet dopo averlo lanciato in Chiamami col tuo nome (2017).
Giovani, carini, affamati
Bones and all è prima di tutto l’incontro tra anime affini. Abbandonata dal padre a causa della sua fame insaziabile, la stessa che li ha costretti a infiniti traslochi, Maren (Russell) ha in tasca solo un rotolo di banconote e il suo certificato di nascita. Mentre attraversa gli Stati Uniti in cerca della madre che non ha mai conosciuto, scopre finalmente di non essere l’unica a nutrire desideri tanto incontrollabili quanto pericolosi. Là fuori ci sono altri come lei, in grado di riconoscersi dall’odore. E se non tutti sono rassicuranti o equilibrati, la presenza di Lee (Chalamet) è una speranza e un conforto che rendono la sua esistenza ai margini degna di essere vissuta.
Nel cast anche Michael Stuhlbarg, il papà di Elio in Chiamami col tuo nome, qui in un ruolo decisamente meno accogliente e comprensivo, Chloë Sevigny e Mark Rylance, cannibale nomade e eccentrico, primo mentore di Maren.
Niente sequel?
A quanto pare Bones and all non ha alcuna aspirazione di diventare un franchise. A Timothée Chalamet l’idea è piaciuta proprio per questo, ha raccontato a Roma, la possibilità di fare un film solo perché Luca Guadagnino ha deciso di dare vita a una sceneggiatura che lo ha convinto. E in effetti è difficile replicare la strana alchimia di questo film, il suo essere curiosamente toccante e volutamente disgustoso. Merito della sceneggiatura di David Kajganich, già autore per Guadagnino del remake di Suspiria (2018) e di A bigger splash (2015), tesa nel parallelismo tra il body horror e i turbamenti dell’adolescenza.
Mangiatori di carne
C’è un’ultima allegoria che vale la pena di prendere in considerazione, quella legata al romanzo da cui il film trae liberamente ispirazione. Se solo fossimo in grado di guardare con obiettività il nostro stesso consumo di carne, spiega l’autrice Camille DeAngelis, vegetariana e poi vegana, con tutte le sue conseguenze spirituali e ambientali, forse il mondo potrebbe diventare un posto migliore. È il messaggio che si legge tra le righe in Fino all’osso (Panini, 2015), mescolando angoscia e desiderio, repulsione e rimpianto, nel cammino di Maren verso l’accettazione e poi il compromesso con la sua natura cannibale.
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