Game of Thrones 8: il finale che divide
Niente sarà più come prima. Per i Sette Regni e per le serie tv. E forse la delusione di molti fan, più che per la debolezza del finale, è dovuta alla difficoltà di separarsi da personaggi tanto amati
È arrivato il momento di dire addio al Trono di Spade. Come qualcuno aveva iniziato a sospettare, si tratta di un addio letterale: l’epoca delle dinastie è finita e il simbolo del dominio di Aegon il Conquistatore, che aveva forgiato il famigerato trono fondendo insieme le spade dei nemici sconfitti, è stato distrutto.
A prescindere dalle considerazioni su quest’ultima stagione, purtroppo destinata a deludere, il trionfo del fantasy televisivo inaugurato con questa serie merita di essere celebrato. Il grande merito degli autori è stato il saper trasformare un prodotto di nicchia in un fenomeno di massa, che non dimenticheremo tanto presto.
“L’amore è la morte del dovere”
La distruzione di Approdo del Re vista attraverso lo sguardo di Tyrion, che aveva creduto fino all’ultimo di poter contare sulla pietà della sua Regina, acquista una profondità maggiore proprio perché se ne sente parzialmente responsabile. Malgrado sia un po’ accelerata, la trasformazione di Daenerys – passata ad ambizioni imperialiste – è stata più graduale di quanto sembri. È sempre Tyrion a ricordare a Jon e agli spettatori (forse in maniera un po’ didascalica) che sono stati proprio i momenti in cui abbiamo esultato con lei, quando a morire non erano innocenti ma uomini malvagi, ad averla portata a sentirsi assolutamente nel giusto. Se ne convince finalmente anche Jon, l’ultimo a tradirla e il più tormentato, il cui destino si risolve non nell’ereditare il potere al posto suo ma nel mettere fine all’egemonia del fuoco e del sangue.
Il potere delle storie
Un salto temporale permette di chiudere le fila della storia. L’idea che un intero continente sia governato da una manciata di lord superstiti disposti a mettersi d’accordo in meno di un’ora sul nuovo assetto dei Sei Regni – un rappresentante eletto di volta in volta dalle aristocrazie di Westeros – è forse un po’ stiracchiata, ma il messaggio di fondo resta valido. Un potere basato sulla libera scelta e non sulla conquista è l’unico modo per rompere definitivamente la “ruota” dell’oppressione.
A sorpresa, è Bran a diventare il primo sovrano di questa nuova monarchia elettiva. Non può avere figli (e quindi eredi) e la sua è una bella storia, un simbolo del passato che può aprire a un futuro migliore, onorando la volontà della stessa Daenerys.
Il rischio di cambiare in corso d’opera
Se questa conclusione di fatto non è piaciuta, è anche perché ha messo involontariamente in risalto i punti deboli del nuovo stile di scrittura. Il dibattito sul calo di qualità è iniziato quando gli sceneggiatori sono stati costretti a inventarsi una parte della storia ad oggi sconosciuta persino al suo stesso autore. Questo ha comportato un drastico sfoltimento dei personaggi e delle sottotrame, ma soprattutto ha trasformato quello che essenzialmente era un dramma politico (il “gioco dei troni”) in una storia più lineare costellata di momenti-shock, vero punto di forza delle ultime stagioni. La coerenza narrativa è stata sacrificata in favore della spettacolarità, a volte con qualche forzatura.
Fan divisi (ma numerosissimi)
Inevitabile che finale dividesse il pubblico (mai così numeroso per una serie HBO): i nostalgici delle prime stagioni lo hanno odiato, mentre chi si è affezionato al nuovo stile ha apprezzato la conclusione felice che gli autori hanno cercato di dare ai personaggi rimasti in vita. Qualcuno l’ha definita “disneyana” e forse per gli Stark è particolarmente vero, anche se tutto sommato fedele allo spirito di ognuno di loro. Dispiace comunque che critiche così dure abbiano smorzato l’entusiasmo di chi ha lavorato per dieci anni alla serie e che ora deve sentirsi un po’ come Cersei Lannister durante la sua sfilata per la città al suono dei campanacci della vergogna.
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